Le donne e l’infarto. Dagli Usa un dossier su tutte le discriminazioni.
L'American Heart Association ha pubblicato su Circulation il primo statement scientifico dedicato all’infarto nelle donne. Un documento di 32 pagine che analizza le tante differenze dell’infarto nei due sessi e fa luce sulle disparità di trattamento, che portano le donne ad avere esiti peggiori. Particolarmente a rischio di ‘discriminazione’ le minoranze etniche.
26 GEN - Le donne vengono da Venere e gli uomini da Marte. E’ il titolo di un famoso libro di John Gray sulle differenze di psicologia tra i due sessi, che potrebbe applicarsi altrettanto bene al primo statement scientifico sull’infarto nelle donne, redatto dall’American Heart Association. La posizione dell’importante società scientifica americana è stata appena pubblicata su Circulation e descrive le tante differenze che l’infarto nel sesso femminile presenta rispetto a quello dei maschi, per quanto riguarda le cause, i sintomi e soprattutto gli esiti. La doverosa premessa di questo documento scientifico è che nel corso degli anni si è assistito ad un importante declino di mortalità cardiovascolare nelle donne, grazie al progresso nei trattamenti, nelle misure di prevenzione delle cardiopatie, ma anche ad una migliore consapevolezza di queste patologie nell’ambito della popolazione generale.
Resta il fatto che ad oggi, negli USA, come nel resto del mondo industrializzato, le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte per le donne. Il 1984 è stato un anno storico, in quanto ha sancito il ‘sorpasso’ delle donne sugli uomini per quanto riguarda il tasso annuale di mortalità per cause cardiovascolari; un triste primato che resta in piedi da allora.
Eppure, nonostante tutti i progressi registrati nell’ultima decade “le donne hanno ancora una prognosi peggiore rispetto agli uomini – ammette la dottoressa Laxmi Mehta, Direttore del Programma di Salute Cardiovascolare delle Donne alla Ohio State University – e le malattie cardiovascolari nelle donne non sono diagnosticate e sono comunque spesso sotto-trattate, soprattutto nelle donne afro-americane”.
Le cause.
L’infarto si verifica quando una coronaria (o un suo ramo) si occlude. Rispetto agli uomini tuttavia, le donne tendono a fare ostruzioni meno gravi, che non richiedono il posizionamento di stent. E tuttavia il danno a carico del loro albero coronarico può provocare un’importante riduzione del flusso di sangue al muscolo cardiaco. Insomma il risultato alla fine può essere lo stesso di un classico infarto ‘maschile’, ma il danno rischia di non essere individuato nelle donne, con la conseguenza che anche il trattamento non sarà adeguato. Le terapie disponibili sono sostanzialmente le stesse, a prescindere dalla gravità dell’ostruzione. Le donne comunque risultano spesso non adeguatamente trattate, rispetto agli uomini, nonostante i benefici di queste terapie siano ampiamente provati.
Trattamento.
Le donne tendono a fare più complicanze quanto sottoposte a interventi di riperfusione coronarica, perché le loro arterie tendono ad essere più piccole; sono generalmente più anziane al momento dell’intervento e tendono ad avere tassi più elevati di fattori di rischio quali diabete e ipertensione. Le terapie consigliate nelle linee guida sono costantemente sotto-utilizzate nelle donne e questo porta a risultati clinici peggiori. Anche i programmi di riabilitazione cardiaca sono prescritti con minor frequenza nelle donne e comunque, anche quando effettuati, vengono portati a termine meno frequentemente nelle donne.
Sintomi.
In caso di infarto, il sintomo più frequente in entrambi i sessi è il dolore o il senso di oppressione al torace; le donne tuttavia tendono ad avere con maggior frequenza dei sintomi atipici, quali dispnea, nausea e vomito, dolore al dorso o alla mandibola.
Fattori di rischio.
Quelli per cardiopatia ischemica in genere hanno un impatto diverso, come gravità, nei due sessi. L’ipertensione arteriosa ad esempio nelle donne risulta più fortemente associata all’infarto, mentre una giovane donne con diabete ha un rischio cardiovascolare 4-5 volte maggiore rispetto ad un giovane uomo diabetico.
Differenze razziali.
Rispetto alle donne caucasiche, quelle di etnia afro-americana presentano una maggior incidenza di infarto in tutte le fasce d’età. Le donne nere e le latine tendono ad avere un maggior numero di fattori di rischio cardiovascolari, quali il diabete, l’obesità e l’ipertensione al momento dell’infarto, rispetto alle donne bianche non di origine latina. Le donne di etnia afro-americana sono in genere sottoposte a trattamenti di rivascolarizzazione, rispetto alle bianche. Acquisire consapevolezza sulle differenze di genere relative all’infarto, consente di migliorare prevenzione e trattamento delle donne colpite da queste condizioni. “Le donne non dovrebbe aver paura di fare domande – afferma Metha – anzi, andrebbero incoraggiate a discutere con i propri medici curanti delle terapie e dei trattamenti invasivi utilizzati per prevenire e trattare l’infarto”.
Gli obiettivi futuri sono naturalmente quelli di colmare il divario e di cancellare le disparità di diagnosi e trattamento tra i due sessi.
Obiettivo non facile, visto che tutto quello che si sa ad esempio sui trattamenti, deriva da trial clinici nei quali le donne sono costantemente sottorappresentate, al punto da costituire in genere non più del 20% di tutti i partecipanti e questo, in barba al fatto che registri e studi longitudinali documentino che le donne rappresentino il 40-50% di tutti i pazienti con malattie cardiovascolari. Questo significa che le informazioni basate sulle evidenze sono molto lacunose per quanto riguarda il sesso femminile e che c’è da recuperare, e in fretta, tutto il tempo perduto per offrire anche alle donne una medicina personalizzata che tenga conto delle differenze di genere. Il problema in ambito cardiovascolare tra l’altro non riguarda solo i farmaci ma anche i device. Tra il 2002 e il 2007 sono stati effettuati 78 trial clinici su devicecardiovascolari, all’interno dei quali le donne erano appena un terzo di tutti i partecipanti.
Maria Rita Montebelli
Articolo tratto da http://www.quotidianosanita.it/